Sul sito di Buscialacroce ho trovato questi due articoli presi dal messaggero. Senza parole.
Dal messaggero di Paolo Mastri
PESCARA (17 aprile) – Duecentocinquanta metri di sedimenti lacustri e alluvionali. Ecco cosa condanna L’Aquila a ballare così spesso e, ogni tre secoli, a fare i conti con terremoti devastanti. Ma dal 1703 a lunedì sei aprile sono accadute molte cose che potevano limitare il carico di morte della scossa delle 3,32. Una in particolare è rimasta colpevolmente sepolta per dieci anni nei cassetti di Comune, Provincia, Regione. E’ uno studio geologico basato su un rapporto del Servizio sismico nazionale, conservato negli archivi della presidenza del consiglio dei ministri con il protocollo Ssn/Rt/96/15.
Dice che il sottosuolo aquilano è composto, negli strati superficiali, da una crosta di detriti che funziona da amplificatore dei terremoti: il fattore di moltiplicazione del movimento del suolo a basse frequenze, dicono i calcoli, è di circa dieci volte. Ciò che più è da temere, in condizioni del genere, è un sisma superficiale classificato come ”regionale”: esattamente quello che è capitato il sei aprile scorso. Un altro dei molti allarmi ignorati, prima della tragedia aquilana. Come lo studio redatto dieci anni fa dalla protezione civile sul rischio sismico del capoluogo, come l’analisi condotta tra il 2003 e il 2005 da ”Abruzzo engineering” sulla vulnerabilità degli edifici pubblici.
La rivelazione è di Christian Del Pinto, 38 anni, origini aquilane, geofisico e responsabile scientifico della protezione civile del Molise. Del Pinto ricorda bene, da giovane laureato, gli studi del professor Gaetano De Luca, con il quale all’epoca collaborava. «Tutto ebbe origine – dice – dopo il terremoto del 20 ottobre 2006 nella zona di Montereale-Campostosto. Una scossa di magnitudo 4.1 che seminò grande allarme, per la presenza nell’epicentro della diga dell’Enel e per la vicinanza del territorio aquilano, duramente colpito dai terremoti del 1915 e del 1703. Nel 1999 De Luca consegnò a Comune, Provincia e Regione, tre distinti studi che evidenziavano la base geologica del fattore di rischio e suggerivano interventi radicali per la messa in sicurezza degli edifici pubblici e di tutti gli immobili adibiti al ricovero di persone: ospedali, scuole, collegi».
Soltanto la Provincia, raccontano i giornali dell’epoca, raccolse l’allarme; la sua richiesta di un finanziamento straordinario alla Regione Abruzzo, però, si perse ben presto per strada. De Luca, nel frattempo diventato dirigente del Servizio sismico nazionale, nel novembre del 1999 fu invitato per via gerarchica a rettificare le sue dichiarazioni pubbliche, riconducendole a mere interpretazioni personali. L’ente non aveva alcuna intenzione di condividere i segnali di allarme. Atteggiamento rimasto immutato fino al 31 marzo scorso, quando la commissione grandi rischi dell’Invg, riunita all’Aquila, definì le prime scosse di avvertimento «tipica sequenza di terremoti, del tutto normale in aree sismiche come in quella dell’Aquilano».
Gli studi sono andati avanti lo stesso e nel 2005 Gaetano De Luca e altri ricercatori ne pubblicarono le conclusioni sul Bulletin of the Seismological society of America, una bibbia del settore. Tutto inutile: appena due anni prima, una ordinanza del presidente del consiglio dei ministri aveva confermato per L’Aquila la classificazione del rischio sismico di grado due, a differenza di Sulmona e Avezzano promosse nella prima fascia in base alle tragedie dei secoli precedenti. L’edilizia di rapina, forse, non è l’unica responsabile della strage dell’Aquila.
Dall’altro ariticolo sempre sul Messaggero di Paolo Mastri
L’AQUILA – Andò così: una sonda installata nella galleria pedonale Collemaggio-piazza Duomo captò il terremoto del 20 ottobre 1996 a lago di Campotosto e registrò lo straordinario fattore di accelerazione del sottosuolo aquilano. Fu così che Gaetano De Luca e Roberto Scarpa, responsabile della Rete sismica abruzzese il primo, docente di sismologia a Salerno il secondo, piazzarono altri due accelerometri nel sottosuolo aquilano. Iniziativa personale, fin da allora la verità che prendeva forma non piaceva ai piani alti del Servizio sismico nazionale. L’anno successivo le sonde registrarono il terremoto di Umbria e Marche. Dati agghiaccianti: «Mai visto nulla di simile in vita mia – commentò il professor Scarpa -, neanche in Irpinia nel 1980». Il bancone di detriti alluvionali su cui è poggiato il centro storico aquilano è un impasto micidiale in grado di moltiplicare per dieci la forza di accelerazione di un terremoto. Dato studiato e pubblicato nel 1999 sul prestigioso Boulletin of the Seismological society of America. La conferma è arrivata purtroppo alle 3,32 del sei aprile scorso. I dieci anni di intervallo sono un altro straordinario capitolo di silenzi, verità occultate, carte sepolte nei cassetti, dati distorti. Come la correzione del rating sismico del territorio aquilano dalla classe ”A” delle mappe statali alla ”B” della carta approvata dalla Regione nel 2003. Una lunga serie di tasselli, dopo lo studio Barberi del ’99 e la ricerca di ”Abruzzo engineering” del 2005, che concorrono a disegnare l’area degli allarmi inascoltati sul rischio sismico del territorio aquilano e sulla vulnerabilità di molti, troppi edifici pubblici e strategici. E’ un livello di responsabilità istituzionali che affianca quello delle colpe personali per i crolli sospetti dei palazzi moderni. Un livello nel quale, inevitabilmente, la magistratura finirà per ficcare il naso, per capire quanti dei 295 morti dell’Aquila vanno sottratti alla contabilità del fato.
Troppe le note stonate in questa storia, a cominciare dalla doppia velocità del sistema statale di Protezione civile e monitoraggio sismico. A novembre ’99 Gaetano De Luca fu censurato dai suoi superiori, per la pubblicità data ai suoi studi, all’epoca comunque noti a Regione, Provincia e Comune; più o meno nella stessa epoca la Protezione civile diretta da Franco Barberi partoriva il suo studio sul rischio sismico nell’Aquilano. Tra gli enti locali, soltanto la Provincia prese sul serio l’allarme dei ricercatori, ma dopo una prima richiesta di 100 miliardi di lire per la messa in sicurezza degli edifici l’iniziativa dell’assessore alla protezione civile Gianfranco Giuliante cadde nel vuoto. «Anche per la freddezza dimostrata dai vertici del Servizio simico nazionale», dice oggi Giuliante. Anche la Regione, in una nota, sostiene di essersi attivata.
Eppure, quando il dottor De Luca pubblico il suo studio, negli archivi della presidenza del consiglio dei ministri era già conservato il report ”Ssn/Rt/96/15” sul terremoto Umbria-Marche e sui suoi effetti in territorio aquilano. Pagina 37: «Le analisi fin qui effettuate… suggeriscono comunque la possibilità di effetti legati all’oscillazione del bancone di detriti su cui è costruita la maggior parte del centro storico della città… E’ comunque necessario approfondire le indagini nell’area». Non bastò ad attivare le ricerche richieste a istituzioni prestigiose come l’Usgs-Menlo park, l’Ens di Parigi e il nostro Servizio sismico nazionale. Non bastò neanche a evitare il declassamento del rating sismico dell’Aquila. Un delitto annunciato, un movente d’interesse: dieci anni fa all’Aquila l’imperativo politico era non terrorizzare imprese e costruttori con i costi della prevenzione sismica. Ne va della vita della città, dicevano.
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